Napoli. Sabato mattina. Insieme a Tanya Di Martino, vicepresidentessa di Pride Vesuvio Rainbow, facciamo ingresso alla Casa Circondariale “G. Salvia”, meglio conosciuta come “il carcere di Poggioreale”. La mission di Pride, nel progetto “Fortunato” promosso da Fondazione con il Sud (nell’ambito del bando “E vado a lavorare”, è quella di sensibilizzare la popolazione carceraria sulle tematiche LGBT. Incontri che si tengono di sabato, con due gruppi di detenuti di diversi reparti.
Gli assistenti all’ingresso ci chiedono dove siamo dirette.“Progetto Fortunato!”, rispondiamo.“Ah, i taralli!”, ribattono. Passiamo i controlli e ci dirigiamo verso uno dei reparti che oggi ci ospiterà. Altri assistenti, altre domande. “Dottore’ ma è sabato, fa caldo, fossi in voi starei a Varcaturo!”, mi dicono. “Ma qua è meglio di Varcaturo!”, ironizzo.
Ci accompagnano nell’aula “scuola” dove a breve incontreremo i detenuti. Uno alla volta, con circospezione, entrano e prendono posto su sedie che mi ricordano i tempi delle medie. Ci sono dei banchi e si sistemano come se davvero dovessero assistere ad una lezione. Li rassicuro: “tranquilli, la nostra sarà solo una chiacchierata, niente lezioni e niente esami”. Il primo gruppo è completo, possiamo iniziare.
Ci presentiamo, presentiamo il progetto Fortunato (alcuni ne hanno sentito parlare, altri hanno partecipato al corso pratico) e raccontiamo di cosa si occupano le associazioni partners, spiegando loro che promuovono e tutelano i diritti delle persone LGBT. “Sapete cosa significa LGBT?”, chiediamo. “No” è la risposta più frequente. “Ebbene, l’acronimo LGBT sta ad indicare persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali”, spieghiamo. Sconcerto palpabile e silenzio.
Riprendo la parola. “Vi chiederete cosa c’entrate voi con queste persone qua? Giusto?!”, ironizzo. Sollievo e tanti “Sì!”. “Voglio provare ad indovinare”, dico “io credo che la vostra più grande preoccupazione, usciti di qua, sia quella di andare ad un colloquio di lavoro e sentirvi dire che non assumono ex detenuti”. Annuiscono incupiti. “E credo anche che sareste amareggiati di essere stati giudicati non idonei per quel posto di lavoro, solo per una etichetta che niente ha a che vedere con la vostra capacità di lavorare”, aggiungo. “Ebbene, ecco cos’hanno in comune detenuti e persone LGBT: il pregiudizio. Essere giudicati, esclusi, discriminati per una condizione o per un’esperienza di vita”, concludo.
Ho la loro attenzione e tra noi si è stabilito un legame, possono rilassarsi. Trascorriamo circa due ore a confrontarci su diversi argomenti. Sono curiosi, chiedono spiegazioni e definizioni. Alcuni si sentono talmente a proprio agio da “confessare”, anche di fronte ai compagni di stanza, di avere un fratello gay che è dovuto andare a vivere la propria vita all’estero pur di sfuggire agli sfottò dei vicini di quartiere.
C’è un ragazzo che racconta di aver saputo a 18 anni che suo padre era sempre stato omosessuale ma che era stato costretto a sposarsi. Alcuni raccontano di esperienze con donne trans e cogliamo l’occasione per affrontare il tema dell’identità di genere, della prostituzione che con superficialità vi si associa e delle motivazioni che spingono molte donne a farlo.
Parliamo di socialità e di legalità. Di scelte. Di dignità umana. Si sono fatte le 11.30. Il nostro tempo con loro è concluso eppure ci chiedono di restare ancora un po’. Ci chiedono di tornare. Di poter approfondire le tematiche affrontate. Li salutiamo, ci stringono la mano.
Oggi abbiamo imparato che ognuno di noi è “diverso” per qualcun altro e i detenuti sono i “diversi” in una società che, di frequente, li discrimina per aver commesso degli errori, piuttosto che riconoscere loro di aver riparato a questi con la detenzione.
“Grazie dottore’, speriamo che ci vediamo ancora”.
Raffaella Spinelli
responsabile della sensibilizzazione sulle tematiche LGBT per il progetto “Fortunato”